domenica 12 agosto 2012

Autobiografia


Era l'ora del tè di un giorno di primavera. La gente aveva appena finito di scherzare per i Pesci d’Aprile ed era tornata seria perché stavo per nascere. Mi sono presentata al mondo di faccia; posizione insolita per un feto. Devo aver pensato che se proprio dovevo vivere, allora tanto valeva non nascondersi. Non sono stata "sfagiolata", ma "asportata" dal corpo di mia madre come una brutta malattia. Questa cosa un po' mi rode: forse è per questo che sono nata senza fiato e poi non ho quasi mai pianto.

Ho iniziato a disegnare molto prima di imparare di parlare. Papà era preoccupato per il mio mutismo; a mamma tutto sommato invece andava bene così, perché aveva comunque un'ottima arma di ricatto contro i capricci: mi minacciava di rubarmi i pastelli e io diventavo molto obbediente.

Sapevo camminare già da tempo, dal mio primo Natale, ma prendevo sempre la strada sbagliata: a volte scappavo con la gente che incontravo per strada e non mi facevo più trovare; spesso cadevo, in particolare quando non venivo guardata. 

La prima frase intera che ho pronunciato è stata: "Non voglio mai più che tu venga a casa mia!". La dissi a mio zio che aveva "rubato" la palla a mia cugina. Una negazione, un avverbio di tempo dai tratti estremisti, un verbo ben coniugato, un’azione di protesta e difesa di qualcuno. Una sola frase, ma di me si poteva già capire tutto. 

La mia infanzia l'ho trascorsa a disegnare. Ricordo poco altro: i colori, la bicicletta, l'hula-hoop, i libri, gli insetti, la campana del vetro in piazza. Il primo disegno che ricordo è un cielo stellato. Un altro è un uovo dentro la pancia di mamma. Poi mi ricordo la Panda bianca, le gite della domenica, le canzoni di Bob Dylan, Tracy Chapman, DeAndrè e Battisti.

Ricordo il primo incubo, che mi ha perseguitata per anni: una vecchia cattiva con il braccialetto di mia mamma. E poi ricordo il secondo incubo: papà non risponde al telefono perché è morto.

Mi ricordo che la notizia che sarei diventata sorella maggiore mi fu data mentre mangiavo l'insalata di riso a bordo piscina in un pomeriggio d'estate. Aveva un gusto strano quell'insalata. E anche quella notizia.

Il primo trauma è stato il trasloco dal paese alla città. Avevo visto 40 bambini in tutta la mia vita e poi in un giorno solo ne ho visti 30 tutti insieme. E non ne conoscevo neanche uno. E poi le suore. Mamma e papà, per non avermi tra i piedi durante il trasloco, mi avevano mandata dalle suore. Non potevo stare con la mia famiglia, dovevo stare nella famiglia del Signore. Sì, ma non era la mia!

Delle medie ricordo la noia, il primo colore cambiato ai capelli, il primo bacio, le cose fatte di nascosto. Le prime angoscianti, terrificanti, inquietanti mestruazioni, arrivate mentre facevo i compiti di geografia. E ricordo quaderni interi riempiti di disegni. Disegnavo in particolare donne: quello in cui avrei voluto trasformarmi. Erano bellissime, procaci, avevano gambe lunghissime, seni sodi e capelli fluenti. A me non è andata proprio così.

Da lì in poi ho potuto fare affidamento solo più sul mio cervello e il mio cuore. Il fisico non ha più risposto. Mangiavo pochissimo e ingrassavo a dismisura. Sono iniziate le diete, le dita in gola, le abbuffate notturne,  le notti in ospedale, gli sguardi arrabbiati con mamma. Forse è qui che ho ricominciato a nascondermi, a non essere più sicura di quello che dicevo, a pensare che avrei voluto essere ancora come quella bambina che per prima cosa aveva fatto vedere a tutti la sua faccia e in seguito aveva sputato una sentenza.

E’ arrivato il momento del liceo e ho sbagliato strada. Del resto io ho imparato a disegnare come prima cosa, non a parlare. Perché allora studiare quattro lingue e non imparare invece i nomi di tutti quelli che avevano disegnato prima di me? Io sentivo quello che la voce dentro mi diceva. Erano quelli fuori di me che non riuscivano a sentirla.

Ogni anno un crollo emotivo. L’arte mi perseguitava, io ero in perenne dubbio se seguirla o ascoltare i genitori.

Poi sono arrivate le cose brutte e dell’arte non me ne è più importato nulla. In inverno è arrivata una notizia assurda, spaventosa, inaspettata e tremenda. Insieme a lei sono arrivati i segreti, le urla, la rabbia, la solitudine, la testa a penzoloni dal balcone. E poi, lentamente, era di nuovo un giorno di primavera. Il primo. Ma non si poteva gioire di quei fiori che stavano nascendo, né di quel sole che iniziava a scaldare i nostri cappotti neri mentre guardavamo una bara attraverso grandi occhiali scuri. 

A questo punto c’è di nuovo un tratto nero, in quel disegno lungo ventisei pagine che è la mia vita. E’ nero, come la stanza con le persiane chiuse in cui ho vissuto per un mese. E’ nero, come quella palla malata che stava nella mia pancia e di cui non riuscivo a dimenticarmi. E’ nero, come il sentimento che sto provando mentre schiaccio i tasti del pc. E’ nero, come le mie pupille ingigantite dal pianto ora e allora. E’ nero come il buco in cui infilavo le persone che non volevo intorno e in cui ero scivolata mio malgrado. E' nero come il vuoto. E’ nero come la poltrona nello studio della dottoressa vista ogni settimana per tre anni. 

Non riesco a ricordare quando ho ricominciato ad usare i colori, quando sul foglio ormai interamente scarabocchiato di nero sono comparse delle macchioline rosse, verdi, gialle. So che erano rosse, verdi, gialle, ma non so quando sono arrivate. So che erano piccole e sono arrivate un po’ alla volta. Tratti neri e tratti colorati mischiati nel foglio successivo.

E’ stato allora che sono diventata grande. Da lì in poi nella mia testa ci sono cose adulte: c’è la macchina, c’è la musica impegnata, ci sono letture di un certo livello, c’è lo studio nove ore al giorno, ci sono tre case, ci sono io da sola, ci sono io in compagnia, ci sono mamma e papà che diventano altro da me, c’è la laurea, ci sono scelte da grande, ci sono tante visite mediche inconcludenti, c’è il lavoro, c’è l’amicizia che sei certa che sia vera e poi non è, ci sono tantissimi amori che appena finiscono dici “non sono mai stata innamorata”.

E adesso cosa c’è? Adesso c’è che ieri riflettevo sul fatto che la “voglia” di disegnare non esce più da un bel po’ di tempo. Si è forse trasformata in voglia di scrivere? O in voglia di lavorare? Potrebbe anche essersi trasformata in voglia di cucinare e fare delle cose belle per soddisfare gli occhi e la pancia delle persone. In fondo l’arte, così come la cucina, riempie gli occhi e la pancia. Emozioni e cibo sono la stessa cosa. E ho evidentemente un rapporto estremamente complesso con entrambi. C’è voglia di cose belle, c’è voglia di cose vere. C’è voglia di stare bene.

2 commenti:

  1. Anna che figata !
    Domenica il mio infallibile sesto senso mi annunciava tra una verdura e l'altra :"ehi bionda, guarda che secondo me questa qui ha uno di quei blog spassosissimi e allo stesso tempo serissimi come piacciono a te...segnati un pò l'indirizzo che andiamo a farci un giretto appena abbiamo un attimo!"
    E io ormai lo so, che il mio sesto senso é un figo(almeno lui...visto che altri pare non ci sia verso di accalappiarne) e quindi eccomi qua!
    Bello, ma proprio bello bello bello ... io resto eh :) !

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